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Data di pubblicazione: 16 dicembre 2016

Venite a scoprire la Polizia delle Renne?

Norway

Era andata a letto a mezzanotte, appena il sole di fine aprile era tramontato. Tre ore dopo Kristine era già in piedi. Fuori era di nuovo giorno e, con la luce che filtrava dalle tende, era impossibile dormire. 
Doveva sbrigarsi, se voleva andare a pesca. Alle nove aveva appuntamento con Hanna, la sua compagna di pattuglia, nella stazione di polizia di Lakselv, nella contea di Finnmark. Per una settimana, insieme avrebbero attraversato in motoslitta le montagne, i laghi ghiacciati, le nevi della Lapponia norvegese, nell’estremo Nord del Paese, dove il giorno in estate, tra maggio e agosto, dura tre mesi, ed è seguito in inverno da un buio altrettanto lungo. 

Con Hanna avrebbero fermato pescatori e cacciatori per verificare se le loro licenze erano in regola, avrebbero controllato le patenti dei piloti in motoslitta e, soprattutto, avrebbero sorvegliato i movimenti delle renne. All’ora di pranzo avrebbero mangiato un panino bivaccando sul ghiaccio davanti a un fuoco acceso, e di notte avrebbero dormito alla bell’e meglio nei rifugi che la polizia possedeva in quel lembo estremo di terra. Ma prima, Kristine voleva pescare un salmone. Lo avrebbe arrostito sul fuoco e Hanna ne avrebbe gioito. E chissà, magari sarebbe piaciuto anche ai loro ospiti, una giornalista e un fotografo arrivati dall’Italia. «Staranno con voi per tutto il tempo, accertatevi che abbiano il giusto equipaggiamento», l’aveva avvertita il capo, Anita, il giorno prima.

Kristine si chiedeva che cosa mai ci facessero in Lapponia dei giornalisti italiani. Chissà che cosa cercano, che cosa si aspettano da noi, pensava, rimarranno delusi, qui non succede mai niente. Decise che glielo avrebbe detto subito.

Ma ce l’aveva già comunicato Inger Anita Øvregård al nostro arrivo. «Non aspettatevi azione. Non siamo un gruppo d’assalto, non ci occupiamo di omicidi. Siamo la polizia delle renne».
Anita, il capo, ci spiegò che lavorava da oltre dieci anni per questa unità speciale della polizia norvegese nata alla fine della Seconda guerra mondiale per dirimere le controversie tra gli allevatori sami, l’antica popolazione che abita la Lapponia e la cui vita ruota tuttora attorno agli allevamenti di renne. Ci disse che i sami, in origine nomadi, oggi sono un popolo stanziale, ma legato alle tradizioni, alla caccia e alla pesca. La loro vita è scandita dai ritmi di quella delle renne, delle quali molti seguono la transumanza dai villaggi fino alle isole nel mare di Norvegia, alla ricerca di cibo tra i ghiacci di una regione grande quanto la Danimarca. 
Anita ci spiegò che le liti in questa stagione dell’anno erano frequenti: a causa del ghiaccio di fine primavera gli animali stentavano a trovare cibo e per questo si spostavano verso le coste da dove, con le barche, venivano trasportati sulle isole, dove il clima era più mite. I proprietari li seguivano bivaccando nelle tende e spesso, per permettere loro di sfamarsi, chiudevano un occhio quando invadevano le proprietà degli altri allevatori. La polizia doveva intervenire per evitare che le liti sfociassero in violenza. Non si concludevano mai nel sangue, precisò Anita. Era successo una, forse due volte, in passato. «E in questi casi la competenza è della squadra omicidi».

Anita spiegò che la polizia delle renne era composta solo da quindici agenti – lei, Kristine e Hanna erano le uniche donne – e che il loro compito non era più quello delle origini. «Nonostante il nome, ormai ci occupiamo più di ambiente che di renne. Preveniamo e puniamo i reati contro la natura. Pattugliamo enormi distese per evitare che la gente seppellisca sotto la neve rifiuti inquinanti che poi verrebbero ritrovati in primavera, allo sciogliersi dei ghiacci. Controlliamo le licenze di caccia e ci accertiamo che i sami, ma anche i turisti, rispettino le leggi sulla pesca. Proteggiamo gli animali che vivono in queste terre, e quelli che le attraversano durante le migrazioni». Mentre parlava, entrarono Hanna e Kristine. Il «capo» ci presentò, poi ci salutò quasi scusandosi perché «durante il nostro soggiorno non sarebbe successo niente».

Covddamohwki, Circolo polare artico. 
Due giorni dopo
Il rifugio della polizia dove ci troviamo è in una località, Covddamohwki, così sperduta che sulle mappe non esiste. È tutto in legno, come un cottage di montagna. C’è una stufa a legna, ma manca il bagno. Al suo posto c’è una latrina: quattro assi di legno a proteggere un buco nella terra. 
Nelle ultime quarantotto ore abbiamo vagato in motoslitta tra le montagne, fermandoci solo per controllare licenze di pesca e di caccia. Di renne, finora, nemmeno l’ombra. «In questa stagione emigrano verso i fiordi, perché qui non c’è nulla da mangiare», mi ha spiegato Kristine, che ha 34 anni e vive sola con due gatti, quattordici husky e un cavallo. Tra lei e Hanna, è lei il capo.
Le giornate da queste parti non finiscono mai. Le finestre non hanno serrande. Alle dieci di sera il sole è ancora alto. Chiudo gli occhi, cerco di dormire, leggo. Alle tre un telefono squilla. Cinque minuti dopo Kristine è in cucina, scalza, china sul tavolo a scrivere appunti, in canottiera e mutande. «Hanno trovato tracce di sangue sulla neve, due agenti sono già sul posto», dice riattaccando. 
Seduta sul divano, Hanna sorseggia un caffè. «Alle due era già giorno, non riuscivo a addormentarmi. Sono andata a correre», spiega. Rivolta a Kristine: «Sarà mica un omicidio?». 
Kristine non fa in tempo a risponderle che il telefono di nuovo squilla: «Siamo qui, ma non troviamo niente. La nevicata delle ultime ore ha cancellato le tracce di sangue», le dice uno dei due agenti già sul posto. Che aggiunge: «Ci troviamo su un lago ghiacciato, abbiamo contrassegnato e bloccato la zona perché già cominciano ad arrivare i pescatori. Tra un po’ qui sarà pieno di motoslitte, di gente. I sami, comunque, negano che ci siano state liti. Qualcuno ci ha detto che un uomo ha visto tutto, ma non è più qui, è a Karasjok». 
Kristine fa tante domande, vuol sapere com’è l’«informatore». «Vado io», annuncia alla fine, «forse ho capito di chi si tratta». Si veste. Indossa l’uniforme, e sopra la tuta e i guanti termici. «Sbrigatevi», ordina, «il posto dove dobbiamo andare dista un’ora e mezza da qui». Hanna mi porge gli stivaloni. 

Karasjok è una piccola cittadina considerata la capitale dei sami norvegesi. Nel 1989 vi è stato istituito il parlamento dei lapponi e ogni anno è meta di turisti, che accorrono qui per ammirare i tamburi e i simboli della cultura sami custoditi nel museo. Che si trova non lontano dal luogo dell’appuntamento.
L’«informatore» è un sami. È sdraiato nella sua tenda, su un tappeto circondato da barattoli vuoti e buste sporche. È visibilmente ubriaco. Forse ha bevuto molto durante la notte, forse lo ha fatto per sopportare meglio il freddo. 
«Due uomini armati sono sfrecciati in motoslitta davanti alla mia tenda. Non cercavano renne ma uccelli», dice. 
Tutto qui dentro è sporco. Anche l’acqua che bolle sopra un fornello acceso è piena di marciume. Ma beviamo lo stesso il tè che ci offre, perché non si offenda. 
«Li ho visti sparare contro gli uccelli selvatici e rubare le uova dal nido», aggiunge il lappone. 
Kristine si agita. In questa stagione molti uccelli migratori attraversano la regione del Finnmark, soprattutto specie rare, che nidificano da queste parti. La polizia delle renne ha il compito di proteggerli e, quando può, vigila su di essi. 


«Trafficanti», mormora Kristine. Il sami scoppia a ridere. «Trafficanti», conferma, «sono scappati verso sud, con le uova».
Kristine afferra il telefono, chiama Anita, il capo. Lancia l’allarme: «Ho bisogno di rinforzi e di pattuglie sulle strade che portano a Oslo». Si rammarica di non averci pensato prima. «Eppure, tutti gli indizi portavano in questa direzione», dice. «Ogni anno i predatori di uccelli rari arrivano nella nostra Terra e fanno strage. Le uova rubate dai nidi vengono portate in Germania, nel Sud Italia, in altri luoghi d’Europa, e fatte sgusciare con mezzi artificiali. I cuccioli, quando sopravvivono, vengono venduti sul mercato clandestino». 
Kristine è indignata. «Ho bisogno di prove, foto, materiale, testimoni che ci aiutino a individuare quegli uomini», intima al sami. Lui ride, beve dalla bottiglia un sorso di liquore, ma poi annuisce. Le darà una mano. Tutto il suo popolo, assicura, l’aiuterà.

  Più tardi, mentre cerchiamo testimoni e tracce del furto, ci imbattiamo in un allevamento di renne. Kristine e Hanna conoscono il proprietario, e controllano che gli animali non abbiano invaso la proprietà di qualche altro allevatore. Da lontano si sente il rumore di una motoslitta. Alla guida c’è un uomo, traina un carrello con dentro una donna e una bambina: lanciano qualcosa sulla neve e le renne accorrono. Il pilota rallenta, si avvicina. «Tutta la proprietà è recintata», spiega alla polizia, «due volte al giorno con la mia famiglia distribuiamo agli animali il foraggio». 
Le renne, aggiunge, nei prossimi giorni verranno portate al macello, la carne venduta, la pelle usata per fare vestiti o accessori impiegati dal popolo lappone. Alcune donne comprano ossa e corna per farne gioielli. «Il governo dovrebbe fare di più per noi lapponi», mi dice. E mi spiega che ormai in molti – si stima che in Norvegia vi siano tra i 50 e i 65 mila sami – stanno abbandonando le renne per cercare fortuna altrove. «Questo non avverrebbe se le autorità si impegnassero di più per aiutarci a sopravvivere».

Il mattino dopo, ancora non si hanno notizie sui ladri di uova. Ma dopo le 10 Kristine riceve una telefonata dalla centrale di polizia di Lakselv. «Il nostro informatore ha mantenuto la parola», mi spiega. Al suo arrivo in ufficio, Anita, il «capo», ha trovato sulla scrivania le foto delle macchie di sangue sulla neve. Nelle immagini si vedevano le tracce della motoslitta. Gli agenti sono risaliti al proprietario. «L’aveva data in affitto a due cittadini tedeschi», continua Kristine, «li stanno cercando dappertutto». 
Ritorniamo sulle motoslitte, attraversiamo vallate ricoperte di neve con fuscelli che spuntano fitti attraverso il manto bianco. «Sono le cime degli alberi», mi spiega Kristine. Oltrepassiamo montagne dai ghiacci perenni, ci imbattiamo in un gruppo di scrittori norvegesi in vacanza su un lago ghiacciato. Dopo aver parcheggiato i loro mezzi, hanno fatto tanti buchi sulla neve e se ne stanno seduti sulle sdraio, in silenzio, aspettando che i salmoni abbocchino. A tutti Kristine e Hanna chiedono se hanno notato qualcosa, se hanno visto personaggi sospetti. Nessuno segnala nulla di strano.

Cominciamo a dubitare che ne verremo mai a capo, quando Kristine riceve una nuova telefonata da Anita. «I nostri colleghi hanno trovato una motoslitta abbandonata sul ciglio della strada che porta ad Alta (una cittadina sulle coste del mare di Norvegia, ndr). Se è la motoslitta che cercavamo, significa che i trafficanti, dopo averla abbandonata, hanno proseguito in auto. La competenza del caso, adesso, passa ai colleghi di quella zona».
All’ora di cena, nel rifugio siamo tutti stanchi. Fuori il sole ancora brilla, Hanna si accoccola sul divano con in mano il telecomando. Sullo schermo c’è un volto familiare. È Anita, il capo, intervistata su una rete Tv locale. «Ho bisogno di aiuto. Due predatori di uccelli rari stanno scappando attraverso il nostro Paese portandosi dietro delle uova. Per rubarle, hanno ucciso la madre dei cuccioli e altri uccelli. Aiutateci a rintracciarli». 
Kristine è triste: da qualche parte, in Europa, qualcuno farà schiudere le uova. «Per soldi, sterminano gli ultimi esemplari di animali che in cattività non potranno mai sopravvivere». Hanna la consola: «Li troveremo, vedrai». Guardandomi: «Ora quel che è accaduto non riguarda più solo noi, la Norvegia, ma anche la Germania, e l’Italia». 
E forse tutto il mondo.

 

Fonte: Vanityfair

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