Un calcio agli stereotipi
Sono stato fortunato»: ce lo ha ripetuto più volte Valentino Hu nel corso della nostra intervista. La fortuna a cui fa riferimento è quella di non essersi spezzato sotto al peso di alcune differenze che lo distinguevano dalle persone che lo circondavano, dalla maggioranza. Un percorso complesso, ma di cui ci parla sorridendo con una serenità che deriva dalla consapevolezza che quelle che alcuni volevano etichettare come diversità scomode sono invece parti preziose del suo essere umano. Sì, perché Valentino è di origini cinesi, è omosessuale e fa un lavoro che per alcuni potrebbe essere distante dalle prime due caratteristiche: il comandante di polizia municipale del Nucleo Centro Storico di Genova. Tre elementi che insieme potrebbero mandare in cortocircuito molti stereotipi.
Nato a Milano, dove i suoi genitori negli anni Ottanta si sono trasferiti in cerca di fortuna dalla provincia dello Zhejiang, 60 milioni di abitanti nel sud della Cina, a tre anni si sposta a Torino. Qui la sua famiglia avvia un ristorante cinese, un’attività imprenditoriale che sceglie di non portare avanti per indossare la divisa, prima a Torino, nella polizia locale, e poi nel capoluogo ligure.
Valentino Hu, com’è stata la sua infanzia a Torino?
«Fin dalle elementari sono stato “il cinese” della classe e della scuola. I miei compagni di scuola mi hanno sempre fatto sentire diverso per le mie origini e ne ho sofferto, ma crescendo ho capito che la loro non era cattiveria ma piuttosto una forma di estrema sincerità. Mi reputo fortunato perché con il tempo sono riuscito a interpretare quel tipo di differenza come una ricchezza».
Una differenza a cui nel tempo se n’è aggiunta un’altra, relativa al suo orientamento sessuale.
«Sì, intorno ai dodici anni ho iniziato a realizzare di essere attratto dalle persone del mio stesso sesso. Ho provato in tutti i modi a essere “normale”, più simile ai miei coetanei, cercando anche di trovare una ragazza, ma poi ho capito che proprio non faceva per me. A sedici anni mi sono dichiarato con i miei genitori dopo un periodo di domande “scomode” da parte loro».
E come hanno reagito?
«In generale nella cultura cinese c’è un po’ di paura nei confronti della diversità. La loro reazione è stata pessima ma a distanza di tempo ho capito che erano semplicemente spaventati da qualcosa che non conoscevano. Per anni hanno cercato in tutti i modi di farmi cambiare idea; una volta – ero ancora minorenne – anche con la velata minaccia di farmi tornare in Cina; ma io sono un testone e non ha funzionato».
Nel tempo le cose sono migliorate?
«Sì. A distanza di circa dieci anni hanno iniziato ad accettare la cosa e ho iniziato a portare a casa anche i miei compagni. Poi dopo la fine di una relazione lunga, ci hanno riprovato chiedendomi se avessi cambiato idea sul mio orientamento sessuale. Ricordo con un po’ di tristezza la proposta di mio padre a mia madre di fare un altro figlio».
Per una famiglia cinese avere un figlio maschio omosessuale può essere problematico?
«Io sono il primogenito maschio e le attese nelle famiglie cinesi sono alte. Il primo figlio maschio storicamente era quello che poteva provvedere al sostentamento della famiglia; nelle famiglie emigrate è quello che deve studiare, portare avanti il cognome e magari anche l’impresa di famiglia. In questo ci sono parallelismi fra la cultura meridionale italiana di qualche anno fa e quella cinese».
Lei non si è dedicato alla ristorazione, ma si è laureato in Giurisprudenza ed è entrato nella polizia locale. Com’è stata interpretata questa decisione?
«Per i miei genitori non era normale perché in passato i cinesi tendevano a essere imprenditori nella ristorazione e nel settore commerciale. Però dopo una prima fase di dispiacere, sono stati affascinati dall’idea che intraprendessi una nuova strada, per certi aspetti insolita».
Da quando ha indossato la divisa le sue origini le hanno causato qualche disavventura?
«Assolutamente sì. Le prime volte in divisa – anche al giuramento – mi sentivo tutti gli occhi puntati addosso. “Che palle” pensavo “possibile che negli anni Duemila siamo ancora a questo punto?”. Ma anche in questo caso ho imparato ad accettare questi comportamenti: ho iniziato a pensare che forse se mi guardavano non c’era un giudizio dietro e ho imparato a rispondere con un sorriso. Anche con i cittadini ci sono stati episodi spiacevoli: mi è capitato di ricevere frasi razziste e violenze verbali in alcune occasioni in cui ho dovuto fare delle contravvenzioni».
Lei è dichiaratamente omosessuale al lavoro; i colleghi come hanno reagito?
«Quando mi sono dichiarato ho intercettato qualche “frocio” o “finocchio” da parte dei colleghi, ma mai direttamente, erano voci di corridoio. Io ho reagito cercando di essere sempre il più trasparente possibile: il risultato è stato che hanno smesso di parlarne e di fare battute; ci sono anche colleghi che sono venuti ad abbracciarmi scusandosi e dicendomi di aver capito che in me non c’è nulla di sbagliato».
Siamo portati a pensare che omosessualità e forze dell’ordine siano due mondi molti distanti; lei cosa ne pensa?
«Le forze di polizia sono ambienti tuttora abbastanza maschilisti e machisti. Detto questo, io vedo tante persone che si sono aperte e che, un po’ come me, non hanno più avuto nessun tipo di problema o critiche. Dall’altra parte esiste una parte di colleghi/e che si nascondono: rispetto la loro scelta ma mi spiace perché molti di loro non sono felici di non poter vivere apertamente questa caratteristica al lavoro. In questi tredici anni in polizia, tuttavia, devo riconoscere che ci sono stati piccoli passi verso una maggiore inclusività; il processo è lento ma sono ottimista perché nello stesso ambiente dove lavoro vedo diversi esempi di persone che non hanno bisogno di nascondersi e sono semplicemente se stesse».
Lei ha dovuto imparare ad accogliere diverse differenze nel corso della sua vita. Cosa consiglierebbe a chi si trova in una situazione analoga?
«Di cercare di essere il più genuini possibile, di non aver paura di esprimere se stessi, e laddove emergessero dei problemi di avere anche fiducia nelle istituzioni. Penso ad esempio all’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (OSCAD) istituto dal Ministero dell’Interno, una realtà che supporta le persone vittime di reati a sfondo discriminatorio».
Il suo è stato un percorso non semplice; oggi in prospettiva come lo vede?
«Oggi posso dire di avere un ruolo professionale che mi appaga e una vita totalmente serena. Mi considero fortunato».
Fonte: Vanity Fair
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